L’episodio dura 1 minuto. Poi rimane il brano di Lorenzo Abattoir che potete tenere in sottofondo mentre leggete il resto della newsletter
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Non so come pronunciare nella mia testa Ə.
Leggo e la mia mente salta le parole che la contengono non sapendole pronunciare.
Quanto è faticoso immaginare, scoprire un suono che legittimi l’utilizzo di un carattere?
La mia mente è pigra e preferisce non enunciare, non nominare - e quindi negare - un’alternativa che so essere preziosa.
Dovrebbe essere una sfida bellissima quella che ho davanti, soprattutto per una persona creativa, per una delle fondatrici del Collettivo EFFE che ha come slogan “we build utopia on stage, showing they are achievable”. Eppure la mia mente sfugge a questa utopia, a questa appropriazione, dato che la shwa un suono già lo ha.
Mi tornano in mente i sutra di Patanjali, filosofo indiano e yogi. Non ricordo in che punto, ma ad un certo punto il succo era il seguente: se vuoi produrre un cambiamento devi praticare con grande sforzo e costanza.
Inizio: “GattƏ”
Tiragraffi: In caduta
di Antonio Careddu
Il lampione davanti alla finestra proietta riflessi gialli sul soffitto.
C'è polvere che rotola sul pavimento.
Lui si fonde pigrissimo col divano sfondato.
La polvere sospesa in aria a volte incontra i fasci di luce che arrivano da fuori e allora (forse per effetto della differenza di temperatura) si formano mulinelli e piccoli cicloni che muoiono prima di ricominciare un po' più in là.
Il divano accoglie senza sforzo (è la sua natura) il peso del bacino e quello della schiena un po' arcuata, la testa è accoccolata da qualche parte tra le pieghe di una coperta lurida. La cassa toracica si espande e poi collassa con un ritmo irregolare, come se ogni tanto, nel bel mezzo di certe inspirazioni, un pensiero suggestivo oppure preoccupante si intromettesse a bloccare il circolo vitale delle particelle che formano il respiro.
È notte.
I bordi delle foglie di un filodendro vibrano non visti mentre nel cuore carnoso della pianta moltitudini di cellule sbuffano microscopici atomi di ossigeno.
Dalla porta dimenticata aperta entra un brivido di vento umido che fa sbattere qualcosa in un'altra stanza. Un orecchio scatta infastidito: si è svegliato.
Si alza dal divano con uno stiracchio e uno sbadiglio a tutta bocca. Che sete. Un momento solo di concentrazione per sondare l'aria della notte. Trovare tra tutti l'odore dell'acqua, andare a bere un po', tornare a dormire.
Nello scendere con passo silenzioso dal divano un movimento nel buio giallo della notte accende i suoi sensi iperattivi. C'è qualcosa che ha tagliato l'aria, un breve ronzio. È andato verso là. Fermo. Solo un baffo si è mosso come antenna. Sparito. La vita è fatta così, di delusioni.
Il ramo di un fico ha spaccato un vetro e ora si allunga dentro la casa. È carico di frutti che si son spaccati. Nessuno li ha raccolti e ora sono nidi di vermi che forse già domani saranno diventati moscerini.
La sete è già dimenticata: c’è una nuova idea più urgente. Con un salto è sopra il ramo. Il contraccolpo fa crollare un grosso fico sul bordo scrostato di una mattonella grigia.
Pochi balzi sui rami dondolanti: è fuori. Il ronzio elettrico dei lampioni riempie l'aria tutt'attorno.
Quali sono le cose che mi sembrano strane?
Una scarpa abbandonata sul marciapiede, l'asfalto bituminoso, il semaforo all'angolo, due gocce di pioggia sfuggite a una nuvola che galleggia a duemila chilometri, la morte di una cellula.
C'è un itinerario invisibile che conduce (lui lo sa) dal fico intricato fin su, al balcone carico di ferraglia dell'ultimo piano, attraverso una ringhiera rugginosa. Bastano quattro salti ben mirati per arrivare al tetto piatto del palazzo.
Qualcuno ha scritto che ogni organizzazione è una forma di sopravvivenza. Lui sente che invece è un atto poetico. Nostalgia di cose impossibili.
Il gatto esegue la manovra per disfunzionalità delle clavicole e flessibilità della colonna, è vero. Ma in fondo è un istinto poetico a organizzare la caduta. È un filo che lo lega a ogni cosa che cadendo sa come atterrare: il seme dell'acero, un boeing 737, un ricordo che non si dimentica.
Una volta raggiunto il bordo del tetto guarda giù. Saranno quattro piani. Un ultimo respiro e il gioco è fatto: salta nel vuoto, salta di schiena.
Il cielo lo acclama lontanissimo, lui chiude gli occhi. Lo spazio della caduta è un luogo denso: il sistema olfattivo finissimo registra il calore di una gatta nascosta da qualche parte, gli aromi riproduttivi dei platani, la puzza dell'acqua che stagna sul fango dell'argine. Attraverso le palpebre serrate la luce dei lampioni filtra come un buio color cioccolato. La pelliccia è strapazzata dall'aria invisibile che si sposta al passaggio violento del corpo cadente. Al momento giusto il gatto inarca la schiena per permettere alla parte davanti del corpo di ruotare su un asse differente rispetto a quella posteriore. Ritira le zampe davanti per aumentare il momento inerziale di quelle dietro. In meno di un secondo è ruotato di centottanta gradi pronto all'atterraggio.
Non c’è niente di meglio di un tuffo nel vuoto prima di tornare a dormire.
Ogni caduta è un atto precario.
GattarƏ
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Micol Jalla, classicista e insegnante di teatro per le nuove generazioni
Atto: dal latino actum, derivato dal verbo agĕre, «spingere, agire».
Precario: dal latino precarius, derivato da prex, «preghiera».
Una cosa è precaria perché hai pregato per ottenerla, ti è stata concessa come un favore; per questo non è solida e non puoi farci affidamento. A ciò si aggiunge il concetto di atto, che include quello di spinta; ne deriva che un atto precario è, etimologicamente, qualcosa che per esistere ha richiesto molto del tuo impegno e del tuo desiderio che esistesse. È vero che spesso ciò che viene da sé è – o sembra – più stabile rispetto a ciò che abbiamo dovuto rincorrere, affannandoci per sfiorarlo, per fissarlo, per farlo nostro. Ma lo è veramente di più delle cose per cui siamo disposti a spingere e a pregare?
Tornando al nostro gatto, un gatto precario è quel gatto a cui hai pregato di volerti bene, e che quindi non te ne vuole abbastanza. Mai. Ma va bene così, finché non smetti di pregare.
Social Catworks, ovvero consigli su gattƏ che fanno cose
Rubrica senza troppe pretese a cura di Natasha Ernest